Una delle paure più grandi delle pazienti e dei pazienti oncologici è quella di perdere i punti di riferimento rappresentati dalla struttura ospedaliera e dai medici che hanno scelto dopo aver scoperto di avere un tumore. È questo il motivo principale che spiegherebbe una certa diffidenza sulla possibilità di essere curati a casa, espressa dalla metà dei pazienti che hanno risposto all’indagine condotta dal Cipomo sull’oncologia di prossimità. Lo pensa Anna Maria Mancuso, presidente di Salute Donna, sottolineando l’importanza che sia prevista la figura di un tutor legato alla struttura di riferimento del paziente, che possa seguirlo a casa nello svolgimento di quelle azioni di cura che non richiedono la sua presenza in ospedale.
In azzurro, prima delle domande, sono riportati alcuni dei risultati di questa indagine, che hanno costituito lo spunto per le nostre domande.
Prossimità è mettersi nei panni di chi vive la malattia: pazienti e operatori sanitari
A colloquio con Anna Maria Mancuso
Presidente di Salute Donna, Associazione per la prevenzione e lotta ai tumori femminili
Essere curati nella propria casa potrebbe migliorare la qualità di vita della persona sofferente di una malattia oncologica? È il tema di un’indagine del Cipomo su oltre 1.400 pazienti. La possibilità di essere seguiti fuori dall’ospedale viene considerata solo dal 30,7% degli assistiti come un’opportunità per sentirsi più liberi e a proprio agio e per qualcuno anche di sentirsi meno malato (per il 10,8%). Tuttavia, circa il 50% pensa che potrebbe “non essere curato al meglio”, teme di non poter più essere visitato in ospedale (13%) o ha paura di essere abbandonato (5%). Così, per le visite di controllo dopo le terapie il 59,67% dei pazienti oncologici vorrebbe essere seguito in ospedale dall’oncologo, il 5,47% dal medico di famiglia, il 35,4% da entrambi e solo il 9,45% da un possibile oncologo del territorio.
Quali possono essere le ragioni di questi timori? Per valutare questi dati occorre tener conto delle difficoltà di molte/molti pazienti di ‘abitare’ la propria casa, magari perché la condizione di malattia non interessa solo una persona nel nucleo familiare o perché persone anziane possono vivere da sole e avere difficoltà nel gestire la vita quotidiana?
Iniziamo con il dire che la malattia oncologica è una patologia che coinvolge emotivamente paziente e famiglia, anche in presenza di una prognosi rassicurante, motivo per cui quando viene diagnosticata si ha l’esigenza di avere da subito un unico punto di riferimento che possa guidare i vari percorsi di cura e infondere fiducia a tutto il nucleo famigliare.
Dal momento della diagnosi, infatti, si passa da un consulto all’altro fino a quanto non si trova il professionista e la struttura che dà più fiducia. Il paziente ‘sceglie’ dove essere curato e chi lo deve curare e inevitabilmente rimane ancorato a quella scelta per tutta la vita, a meno che non venga a mancare per qualche grave motivo il rapporto di fiducia con il suo punto di riferimento che, generalmente, è individuato nella figura dell’oncologo, se è soggetto a cure oncologiche, e del chirurgo, se il percorso è limitato al solo intervento.
In sostanza uno dei timori che più spaventa il paziente è perdere i punti di riferimento che si è scelto e che per lui sono di estrema importanza: metaforicamente l’oncologo è l’ossigeno che lo tiene in vita sia per la malattia oggettiva sia per le sue paure immaginarie e per nessuna ragione vorrebbe essere seguito da altre figure professionali diverse da quelle che ha liberamente scelto anche se fossero “sotto casa”. Pertanto difficilmente un paziente accetterebbe di cambiare oncologo e struttura, anche qualora ci fossero proposte che faciliterebbero la sua qualità della vita dal punto di vista logistico.
A parità di sicurezza ed efficacia delle cure, il 19,1% dei pazienti pensa che accetterebbe di effettuare fuori dall’ospedale la chemioterapia orale, il 26,68% il follow-up, il 19,15% alcune terapie parenterali, il 32,16% gli esami di base.
Anche da queste risposte sembra che la maggior parte dei pazienti preferisca il setting ospedaliero per ricevere le terapie: da sottolineare inoltre che per il 39,5% dei malati oncologici la distanza non è importante, ma solo la continuità delle cure. Come suggerisce di leggere questi dati?
Questi dati possono portare a una lettura molto sintetica. In primo luogo, rispetto alle terapie orali, nonostante possano favorire una migliore qualità della vita c’è sempre la paura di sbagliare e di non essere in grado di gestire eventuali effetti collaterali. Questo avviene soprattutto nei pazienti anziani e pertanto la gestione ospedaliera rende più sicuri. Bisognerebbe prevedere dei tutor legati alla struttura di fiducia del paziente che possano seguirlo a casa.
Secondo, rispetto al follow-up, ritorniamo alla prima risposta: l’équipe ospedaliera e la struttura scelta dal paziente sono quelle che più gli danno fiducia.
Infine, generalmente il paziente preferisce eseguire anche gli esami di base nella struttura di riferimento, ma su questo aspetto ha più elasticità a patto però che gli esiti vengano letti, controllati e condivisi con l’oncologo di fiducia.
La narrazione sull’importanza della telemedicina è molto intensa: però meno della metà di chi ha risposto al questionario vede di buon occhio la telemedicina e la posta elettronica come strumenti assistenziali. C’è anche chi diffida (circa il 16%) e il 30,7% non sa rispondere e questo è forse il dato più allarmante.
È necessario superare queste barriere? Se sì, come riuscirci? La digitalizzazione di alcuni passaggi chiave dell’assistenza potrebbe rivelarsi un determinante di disuguaglianza tra i cittadini?
Per rispondere a questa domanda è necessario fare una premessa: la telemedicina non può in nessun modo sostituire il rapporto diretto tra medico e paziente e pensare di farlo è una follia. Il paziente oncologico ha bisogno del “contatto diretto e umano” con il suo oncologo poiché il contatto è per lui l’altra metà della cura. Più volte si è parlato di quanto sia importante il tempo dedicato alla comunicazione e all’accoglienza ma stiamo andando dalla parte opposta: limitare il più possibile questo tempo.
La telemedicina ha dei vantaggi, che dovrebbero essere limitati alla trasmissione degli esami, a consulti tra specialisti, alla programmazione dei controlli, all’invio di impegnative, a rispondere ad eventuali dubbi e interpretazioni che possono nascere dopo l’incontro diretto con il proprio specialista.
C’è da aggiungere che non tutti i pazienti oncologici hanno capacità tecnologiche (in verità è così anche per una discreta parte di operatori sanitari) visto che la popolazione che si ammala tendenzialmente e per fortuna non riguarda fasce in giovane età.
C’è anche un altro aspetto: i programmi sono spesso complicati, basti pensare alla cartella elettronica: per riuscire ad aprirla e consultarla occorrono scienziati del settore.
Un paziente su cinque vede nella difficoltà di trovare parcheggio vicino all’ospedale uno dei principali motivi di insoddisfazione.
Come convincere gli amministratori e i decisori sanitari dell’importanza di dare risposta ai bisogni concreti dei pazienti e delle pazienti? Esistono buone pratiche che possano servire da modelli?
Permettetemi una battuta: i parcheggi si trovano ma sono a pagamento poiché i comuni, così come alcuni ospedali privati convenzionati, danno in gestione a terzi le aree antistanti alle strutture adibite a parcheggio per fare cassa. Spesso questi parcheggi hanno delle tariffe orarie molto alte, per cui – considerando il tempo che un paziente oncologico trascorre in ospedale – i costi del parcheggio diventano pressoché impossibili.
La soluzione per i parcheggi? Costruire i nuovi ospedali fuori dai centri abitati, con spazi dedicati a libero parcheggio, e prevedere per le vecchie strutture realizzate nei centri abitati navette di trasporto (per i pazienti autosufficienti) direttamente collegate con gli ospedali.
Per la cura domiciliare, i follow-up, il rapporto con i medici di base e la gestione territoriale sarebbe auspicabile costruire e presentare al paziente, già alla prima diagnosi, la rete delle varie figure interessate, modello già sperimentato e vincente all’interno degli ospedali (non tutti) con l’équipe multidisciplinare.
Ci sono delle regole però che potrebbero aiutare gli amministratori pubblici a fare bene quando prendono decisioni che riguardano la vita dei cittadini: mettersi nei panni di chi vive la malattia e sentirsi un paziente non privilegiato. Un’altra buona prassi è l’ascolto, l’ascolto di chi vive sul campo la malattia: pazienti e professionisti sanitari.
In pubblicazione su Care 3, 2023