A cura di Mara Losi
Nel dicembre 2014 il Programma congiunto delle Nazioni Unite sull’HIV/AIDS (UNAIDS) lanciò l’iniziativa “90-90-90” sulla base della quale entro il 2020 nel mondo il 90% di tutti i casi di HIV avrebbe dovuto essere diagnosticato, il 90% delle persone sieropositive avrebbe dovuto avere accesso alle terapie antiretrovirali e il 90% delle persone trattate avrebbe dovuto poter ottenere la soppressione della carica virale, con l’obiettivo di porre fine all’Aids come minaccia di sanità pubblica entro il 2030. A questi tre 90%, la comunità HIV ne ha aggiunto un quarto altrettanto importante: fare in modo che il 90% delle persone che vive con HIV possa godere di una buona qualità della vita correlata alla salute, nonostante l’HIV.
La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel 2015 ha sostituito gli otto Millennium Development Goals con i 17 Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ha inserito nell’Obiettivo 3, dedicato al tema della salute, proprio l’obiettivo di ottenere l’eradicazione di HIV, malaria e tubercolosi entro il 2030.
È stata UNAIDS stessa, nel rapporto Prevailing against pandemics by putting people at the centre, a segnalare alla fine del 2020 il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti, determinato oltre che dalla scarsità degli investimenti e dall’insufficienza delle azioni messe in atto dai vari governi per contenere l’HIV, anche dalla diffusione della nuova pandemia da covid-19, che ha messo sotto scacco i servizi sanitari di tutto il mondo. Nessuno si è arreso però, tanto che sempre UNAIDS ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo ai governi di impegnarsi a superare il target dei 90-90-90 per raggiungere entro il 2025 il nuovo target dei 95-95-95 per gli stessi parametri. Questo perché l’obiettivo finale di porre fine all’AIDS entro la fine del 2030 non rimanga pura utopia.
Il principio che ha guidato UNAIDS nella definizione di questi target è stato quello di mettere al centro di ogni strategia le persone che vivono con HIV e le comunità a rischio, ossia i più giovani e i gruppi di popolazione più vulnerabili come quelli rappresentati dai carcerati, dai lavoratori del sesso, dai rifugiati e migranti, e dai tossicodipendenti e identificati da UNAIDS come key community.
Questo perché sarà possibile vincere la lotta contro l’AIDS entro il 2030, come stabilito dagli obiettivi ONU per uno sviluppo sostenibile, solo combattendo le discriminazioni e lo stigma verso chi vive con l’HIV, rispettando i diritti e la dignità di queste persone e dando priorità a chi non ha ancora accesso ai servizi e ai trattamenti salvavita disponibili nei paesi più avanzati.
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Da Care 4/5, 2021